La
recente riflessione linguistica sulla storia e l’evoluzione del sanscrito
costituisce un interessante spunto di riflessione.[1]
È noto, infatti, che l’esame del rapporto tra vedico, sanscrito e pracrito si è
negli ultimi tempi estremamente complicato con il risultato di far emergere
prospettive di ricerca nuove. Sheldon Pollock ha evidenziato che il sanscrito
come lingua della letteratura, in contrapposizione all’uso esclusivamente
liturgico della stessa, sia un evento da collocarsi in un momento ben preciso
della storia indiana e coinciderebbe sostanzialmente con l’arrivo nel
subcontinente di popolazioni come gli Śaka: il sanscrito acquisisce dunque una
nuova dimensione solo allorché in India, a cavallo dell’era volgare, nascono
compagini statali “straniere”, all’interno delle quali si avverte l’esigenza di
sfruttare il prestigio e le possibilità di un mezzo linguistico fino a quel
momento confinato alla dimensione religiosa e in particolare ritualistica.[2]
Anche Murray
Barnson Emeneau aveva visto nel sanscrito la lingua derivata da uno dei tanti
dialetti rigvedici che circolavano nell’India del nord dopo l’avvento degli ārya.[3]
Secondo Aklujkar dall’originaria lingua vedica dunque si approderebbe a una situazione sempre più eterogenea e diversificata, fino a quando le esigenze della casta brahmanica di disporre di uno strumento linguistico il meno possibile lontano dalla lingua eterna e immutabile delle saṃhitā determinarono la “confezione” di una lingua che fosse regolamentata e disciplinata attraverso un corpus di regole: la grammatica di Pāṇini non sarebbe allora nient’altro che il tentativo di stabilizzare questi processi linguistici definendo la lingua colta usata dai brahmani come appunto saṃskṛtam, strumento confezionato ad hoc per richiamarsi alla divinità della lingua vedica con tutte le ricadute “carismatiche” del caso.[4]
Secondo Aklujkar dall’originaria lingua vedica dunque si approderebbe a una situazione sempre più eterogenea e diversificata, fino a quando le esigenze della casta brahmanica di disporre di uno strumento linguistico il meno possibile lontano dalla lingua eterna e immutabile delle saṃhitā determinarono la “confezione” di una lingua che fosse regolamentata e disciplinata attraverso un corpus di regole: la grammatica di Pāṇini non sarebbe allora nient’altro che il tentativo di stabilizzare questi processi linguistici definendo la lingua colta usata dai brahmani come appunto saṃskṛtam, strumento confezionato ad hoc per richiamarsi alla divinità della lingua vedica con tutte le ricadute “carismatiche” del caso.[4]
Infatti, Pāṇini non parla mai di sanscrito e sembra voler offrire gli strumenti
per poter ricondurre la lingua di cui tratta al vedico, modello divino di
lingua dalla quale ci si allontanava visibilmente e inevitabilmente, a fronte
di quella Babele del panorama linguistico a lui contemporaneo.[5]
Il
Mahābhāṣya di Patañjali offrirebbe
poi ulteriori strumenti a conferma di questa visione se, come vogliono alcuni, si
potesse collocare più tardi rispetto al 150 a.C.: infatti, le porzioni più
consistenti di kāvya si trovano
proprio in Patañjali e lo spostamento di quest’autore ai primi secoli dell’era
cristiana confermerebbe l’idea di Sheldon Pollock che alcun uso letterario del
sanscrito è noto prima dell’arrivo degli Śaka in India.[6]
Significativamente
la prima iscrizione in sanscrito, cioè in quella lingua che è stata codificata
da Pāṇini e che è oggetto di discussione da parte di commentatori e grammatici
successivi, è quella della dinastia Śuṅga che riporta l’aśvamedha di Dhanadeva.[7]
Ashok
Aklujkar afferma che il sanscrito è il tentativo di stabilizzare una variante
linguistica, quella del ceto colto brahmanico, nel momento in cui ci si rende
conto del progressivo allontanarsi dal vedico delle saṃhitā, inteso come linguaggio eterno e immutabile.[8]
Possiamo dunque intendere che il sanscrito fu lingua "confezionata" nel corso del I Millennio a.C. nel tentativo di ricondurre la lingua "corrotta" a fasti del testo e della letteratura vedica? E che i brahmani fossero i depositari di questa lingua confezionata dai grammatici?
E può lo stesso meccanismo applicarsi ai rituali brahmanici da intendersi come tentativo di ricondurre la pratica rituale ai modelli del Veda?
[1] A. Drocco, “Sanscrito, pracrito
e la lingua del canone jaina secondo Hemacandra”, 10 maggio 2011, Università
degli Studi di Torino.
[2] Pollock
2006, pp. 72-73. Sull’evoluzione storica del sanscrito vedasi anche Pollock 2001.
[3] Parpola
1983, p. 43.
[4] Non a caso il primo uso del
termine saṃskṛtam è aggettivale (Aklujkar (1996), p. 71).
[5] Aklujkar
(1996), p. 72; Deshpande1993b, p. 60; Deshpande (1993)a, p. 1-16.
[6] Per i problemi relativi alla
datazione di Patañjali vedasi Pollock
2006, p. 80.
[7] Pollock
2006, p. 60. Secondo Deshpande
(1993)a, p. 15 la prima iscrizione a riguardo sarebbe invece
quella di Rudradāman, sempre della dinastia Śuṅga. Sul rapporto tra dinastia Śuṅga
e aśvamedha vedasi Chierichetti
(2012), pp. 8-9.
[8] Aklujkar (1996), p.
67.
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