mercoledì 23 agosto 2017

Lo spazio in India



Lo spazio è inteso come capacità, come ampiezza contrapposta all’angustia, all’angoscia e alla limitatezza. Il rito realizza questa dimensione del benessere inteso come disponibilità, come realizzazione di prosperità, ricchezza e potenza perché basate su una più sostanziosa qualità ontologica.



Ma lo spazio è anche ordine, è definizione, è delimitazione perché lo spazio è reale quando è sacro: la sua sacralità si fonda sulla partecipazione a una dimensione vera che è realizzata nell’azione sacra per eccellenza, il sacrificio, ripetizione dell’atto primordiale, dell’azione autentica.[1]



A questo si lega la distinzione tra Caos e Cosmo che a livello microcosmico trova, in India, un parallelo efficace nella dicotomia tra araṇya e gramya, per dirla con Mircea Eliade:

“La caratteristica delle società tradizionali è costituita da una sottintesa opposizione tra il territorio da esse abitato e lo spazio circostante sconosciuto e indeterminato: il primo è il “Mondo” (più esattamente: “il nostro mondo”), il Cosmo; il resto non è più un cosmo, ma una specie di “altro mondo”, spazio straniero, caotico, popolato di larve, demoni, “stranieri” (simili d’altronde ai demoni e ai fantasmi)”.[2]








[1] La ripetizione dell’atto primordiale va intesa non come imitazione, bensì come ri-attualizzazione dell’atto nella sua essenza. La capacità di fondare e di creare è ciò che caratterizza l’azione sacrificale e questa potenza creatrice è realizzata nel rituale a imitazione di quel primo e ancestrale atto fondante (vedasi P. Chierichetti, La stringa rituale. Una teoria delle varianti ritualistiche attraverso l'analisi del sacrificio indiano, cit., pp. 25-73).
[2] M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., p. 24. 

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