Lo spazio è inteso come capacità,
come ampiezza contrapposta all’angustia, all’angoscia e alla limitatezza. Il
rito realizza questa dimensione del benessere inteso come disponibilità, come
realizzazione di prosperità, ricchezza e potenza perché basate su una più
sostanziosa qualità ontologica.
Ma lo spazio è anche ordine, è
definizione, è delimitazione perché lo spazio è reale quando è sacro: la sua
sacralità si fonda sulla partecipazione a una dimensione vera che è realizzata
nell’azione sacra per eccellenza, il sacrificio, ripetizione dell’atto
primordiale, dell’azione autentica.[1]
A questo si lega la distinzione tra
Caos e Cosmo che a livello microcosmico trova, in India, un parallelo efficace
nella dicotomia tra araṇya e gramya, per dirla con Mircea Eliade:
“La
caratteristica delle società tradizionali è costituita da una sottintesa
opposizione tra il territorio da esse abitato e lo spazio circostante
sconosciuto e indeterminato: il primo è il “Mondo” (più esattamente: “il nostro
mondo”), il Cosmo; il resto non è più un cosmo, ma una specie di “altro mondo”,
spazio straniero, caotico, popolato di larve, demoni, “stranieri” (simili
d’altronde ai demoni e ai fantasmi)”.[2]
[1] La ripetizione dell’atto primordiale va
intesa non come imitazione, bensì come ri-attualizzazione dell’atto nella sua essenza.
La capacità di fondare e di creare è ciò che caratterizza l’azione sacrificale
e questa potenza creatrice è realizzata nel rituale a imitazione di quel primo
e ancestrale atto fondante (vedasi P. Chierichetti, La stringa rituale. Una
teoria delle varianti ritualistiche attraverso l'analisi del sacrificio indiano,
cit., pp. 25-73).
[2] M. Eliade, Il
sacro e il profano, cit., p. 24.
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