Nel sacrificio del cavallo le quattro mogli del sacrificante, in quanto donne, sono portatrici di vitalità e i gesti che compiono lo confermano. Innanzitutto il cavallo viene sventolato: la respirazione come elemento vitale accompagna il cavallo appena ucciso.[1]
Le mogli realizzano queste operazioni legando una parte dei capelli e lasciando
libera l’altra. L’acconciatura è decisamente particolare:[2]
le rappresenta volutamente come in preda a una follia estatica, una follia che
mette in risalto la loro vitalità femminile.[3]
L’azione di sventolare il cavallo viene svolta simultaneamente a un altro gesto, quello di battere le cosce con il palmo della mano. Le cosce sinistre, precisamente, vengono colpite ripetutamente. Per il valore di questo gesto si può rimandare a un famoso episodio del Mahābhārata che ha come protagonista Draupadī.[4]
Anche in questo caso dunque sembra che si richiami apertamente un valore di vitalità, un esplicito rimando sessuale che contribuisce a donare vitalità al cavallo morto. Quest’interpretazione è quella più diffusa per questo tratto del rituale.[5] Non solo: anche nel rituale mahāvrāta compare questa significativa azione del battere: una coda di toro viene usata per far risuonare una pelle bovina stesa sopra una cavità.[6]
I significati fecondatori di questo gesto s’intrecciano a un’altra componente del rituale, quella dello sventolare il cavallo. Lo stesso atto (dhuvana) è presente proprio nel mahāvrāta:
I am referring to the peculiar rite of “fanning” (dhuvanam), which
must have become antiquated and unfashionable quite early but nevertheless is
described as optional in the texts (Caland 1896, 135-140).[7]
[1] Le ragioni del rito sono
piuttosto misteriose. Innanzitutto va segnalato che in questo tratto del
rituale assumono un ruolo da protagonisti i soffi vitali e il respiro (ŚB
13.2.8.2 e VS 23.18). Sul collegamento tra respiro e vitalità non è necessario
insistere: nella pratica dello yoga,
per esempio, prāṇa e vitalità sono
intimamente connessi (Carrington
1908, p. 247). In ŚB 13.2.8.4 si dice che le donne girano attorno al cavallo
per fare ammenda dell’uccisione appena compiuta: nove volte ruotano attorno
all’animale perchè nove sono i soffi vitali. Con l’atto dello sventolare le
donne pongono dentro di sé i soffi vitali. La lettura dello Śatapathabrāhmaṇa
è decisamente orientata sulla teoria dei soffi vitali: si tratta però di una
connessione che appare, anche nel riferimento numerico, assolutamente
costruita. In ŚB 13.2.8.5 si fa invece cenno al seminatore, stabilendo una
connessione tra seme e bestiame/progenie. Il seminatore è il cavallo e il seme
rimanda all’unione sessuale, quindi alla fertilità. In questo senso l’ambito di
attinenza non può essere più palese. L’atto dello sventolare è collegato alla fertilità
e alla vitalità. L’operazione è riportata anche da ĀŚ 20.17.13-17 (vedasi Gonda 1981a, p. 230). L’atto
dello sventolare è compiuto anche nel rito del pravargya allorché l’adhvaryu,
insieme al pratiprasthātṛ e all’agnīdhra, sventola il vaso con ventagli
fatti di pelle d’antilope nera: l’azione viene praticata girando attorno al
vaso per tre volte in senso antiorario e per tre volte in senso orario (vedansi
Vesci 1985, p. 254 e Dumont 1927, p. 81). Sul ruolo delle
donne nel rituale in India vedasi in particolare Chauduri 1956.
[2] L’acconciatura delle mogli del
sacrificante può essere messa in connessione con quella arruffata delle Menadi
nel mondo greco (Pointon 1997, p.
188).
[3] Del resto sia le apsaras indiane che le ninfe del mondo
classico sono legate alla vitalità e alla fertilità (Calasso 2005, p. 21). E le Menadi sono devote a Dioniso,
divinità collegata alla vitalità: la danza delle donne finiva con lo
smembramento di un animale e con il consumo della carne cruda, altro tratto
d’indiscutibile collegamento con la fertilità.
[4] Mostrare e battere la coscia è
un gesto erotico, come illustra l’episodio del Mahābhārata in cui Duryodhana mostra a Draupadī la coscia nuda
invitandola a sedervicisi (Pisani-Mishra
2002, p. 119). Altro rimando può essere l’iconografia di Maheśvara con Umā
seduta sulla coscia del dio (vedasi Uma-Mahesvara,
statua in basalto, Bihar, Dinastia Pala, X-XI sec., Museo d’Arte Orientale di
Torino [Inp 28]).
[5] Sulla questione dell’erotismo e
del ruolo delle mogli nell’aśvamedha
vedansi Sur 1973 e Jain 1964; sui rituali erotici e in
particolare su quest’aspetto nell’aśvamedha
vedasi Pillai 1997, p. 79.
[6] Parpola
1983, p. 48.
[7] Parpola
1983, p. 50.
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